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Post Scriptum
“Io non ammetto il teatro”
Anche se può apparire una
dispersiva divagazione dal tema che più ci interessa, il destino del teatro,
premetto che non amo le generalizzazioni: preferisco esercitarmi a separare
mentalmente una cosa da un’altra notandone la differenza, la diversità,
distinguendo se possibile coloro che, dotati di talento, si fanno notare nel
loro campo d’interesse professionale per il coerente rigore, per il coraggio,
talvolta temerario, di lasciare un segno, imprimendolo così bene da riuscire a emergere,
a eccellere, uscendo così facendo dall’anonimato, tanto da differenziarsi,
liberandosi dal bisogno di conformarsi agli standard sociali prescritti. Nina e
Trepliòv, già alla fine dell’Ottocento, ne Il
Gabbiano di A. Cechov, si dichiarano contrari al teatro contemporaneo,
esponendosi con ardore, gridando a gran voce “Io non ammetto il teatro.” Proprio così, testuali parole. Vanno in
cerca di “nuove forme”, non ammettono
l’esistenza di un “teatro narcotico”,
ché per loro “è routine e pregiudizio”,
più propensi piuttosto a rinunciare alle posticce scenografie in uso.
“Quando si alza il sipario e nella luce serale, in una stanza con tre
pareti, questi grandi ingegni, questi sacerdoti dell’arte rappresentano gli
uomini intenti a mangiare, a bere, ad amare, a camminare, a portare la propria
giacca; quando da quadri e da frasi banali si sforzano di cavar fuori una
morale – una morale meschina, accessibile, utile agli usi domestici; quando in
mille varianti mi offrono sempre lo stesso, lo stesso, lo stesso, - allora io
scappo e scappo, come Maupassant scappava via dalla Torre Eiffel, che gli
opprimeva il cervello con la sua banalità.” (Trepliòv) Sono parole che
lasciano tutt’oggi di stucco: potrebbero fuoriuscire dalla penna di un giovane
autore nostro contemporaneo. Ecco, essi sono un esempio indelebile di
coraggiosa e rigorosa coerenza, come anche lo sono Amleto, Edipo, Antigone,
tanto per citare alcuni personaggi ribelli, dannati da un assoluto, che appartengono
a questa numerosa schiera di soggetti partoriti dalla fantasia umana, spietati
verso ogni ipocrita felicità mondana e ancor più verso sé stessi. Apprezzo in
tutti, chi realmente esistito e chi personaggio emerso dall’immaginazione
creativa di autori teatrali, il loro geniale valore, provo una affinità
psicologica verso di essi e li considero con rispetto anche quando li vedo
perseguire percorsi e obiettivi lontani dai miei: purché io percepisca nella
loro anima la possessione di un dèmone.
Ampliando il ragionamento, personalmente
ora non solidarizzo in modo indistinto con tutte le categorie professionali,
per esempio in modo generico con tutti i commercianti richiedenti in tempo di
pandemia, in quanto esercenti, ‘ristori’, contributi a scatola chiusa e sussidi
a fondo perduto a protezione della gestione delle loro attività, esercizi tristemente
uguali l’uno all’altro, sorti di recente senza alcuna necessità, privi di distinzioni,
di orizzonti e di visioni prospettiche. Non si riflette mai sulla necessità di
cambiare lo stato delle cose in una società che si mantiene in vita prevalentemente
aggrappandosi all’agitazione turistica. Il sogno di tanti è quello di tornare nostalgicamente
al passato pre-covid, anziché far tesoro di quanto sta succedendo per rivoluzionare
le stantie concezioni e gli illusori valori culturali che ci hanno condotto in
questo vicolo cieco a sbattere contro il muro dell’ignoranza. Non si è compresa
la necessità di una radicale rivoluzione culturale. Non si pensa a incentivare riconversioni
professionali mirate, preferendo istigare i soggetti a rimanere sulla soglia dei
negozi in attesa che qualche turista di passaggio abbocchi alle interessate lusinghe
da bottegai. Il discorso da fare compiutamente sarebbe tuttavia lungo e
complesso, esulando dai fini che mi sono prefisso. Mi sento avvinto da un
vincolo di interdipendenza che mi unisce affettivamente e moralmente a chiunque
curi ciò che fa con passione e professionalità, cercando di perfezionarsi
giorno dopo giorno, indefessamente, non succube del dio denaro e non in cerca di
facili guadagni. Sono empaticamente vicino a chi esercita, per esempio, l’arte
culinaria, sia esso chef stellato o umile cuoco di provincia, valorizzando le
risorse del territorio, cercando di reperire con cura i prodotti e i produttori,
innovando o riproponendo le ricette tradizionali, purché esigenti verso sé
stessi, in continua correzione di sé e dei risultati già conseguiti. Avverto in
tal caso comunanza di interessi e mi sento sollecitato a sostenerli con
partecipazione, se sento in loro il possesso di una visione alta del proprio
mestiere, non praticato solo per lucro, esercitandolo con rigore: provo questo
sentimento ogniqualvolta mi trovo di fronte a qualcuno, chicchessia, condannato
per così dire a inseguirsi in un rigoroso perfezionamento professionale, morso
dal bisogno di avanzare nella conoscenza del proprio mestiere.
Ora, mutatis mutandis, tornando a riflettere sul teatro, mi sento
solidale con chi, errando di errore in errore, si impegna con slancio vitale e,
in cerca di perfezione, insegue anch’egli un nobile ideale, ambendo a
consegnare la propria immaginazione a spettatori e a testimoni che si nutrano
anch’essi di alte aspettative, impegnandosi tutti coralmente alla realizzazione
di opere sublimi. Non sempre si riesce nell’intento, forse quasi mai a dire il
vero, ma ciò che conta è guardarsi nell’animo in cerca del proprio destino
interiore, senza doveri autopunitivi verso sé stessi, ma anche senza facili
autoassoluzioni.
I teatranti li ho visti di
recente scendere in piazza, sì, ma uniti anch’essi solo da richieste sindacali
di incentivi a fondo perduto, senza tuttavia, mi sia consentito dirlo, alcuna
distinzione di merito. Mi sembra vi sia penuria, in chi pratica questo
mestiere, di ideali, di sentimenti e scopi nobili, ognuno chiuso nel proprio
orticello ad arare percorsi già visti e solcati innumerevoli volte da
altrettanti innumerevoli predecessori, senza nulla aggiungere, in mancanza di
chiare visioni e di contemplazioni spirituali elevate. Senza sistematiche
concezioni (concipere=prendere
insieme) artistiche di pensieri e di idee, l’agire scenico non può che rimanere
ancorato a terra da uno stantio zavorramento che non apre ad alcuna prospettiva
creativa degna di nota, se non a ripetitivi, macabri déjà vu. Non c’è più chi
formuli progetti visionari, senza i quali tutto è noiosamente prevedibile e
previsto. Si replica, mi sembra, clonando sé stessi, di spettacolo in
spettacolo, senza nulla aggiungere e senza essere agiti da alcuna necessità, se
non quella di apparire, mossi da un anacronistico autocompiacimento. Senza la
visionarietà dei sognatori il teatro si estingue per asfissia suicida.
“Figure vive! Bisogna rappresentare la vita non com’è e non come deve essere, ma come ci appare nei sogni.” (Trepliòv)
In questo momento storico che stiamo vivendo, di fronte a buona parte della gioventù lasciata a bighellonare privata della dignità di un lavoro, pervasa com’è dall’illusione di sfrenati e incontenibili pensieri e comportamenti edonistici, morbosamente autoindulgente e compiaciuta da sfrenate movide che trasformano tutto il tempo in tempo libero e in ricerche di futili e labili piaceri, non assolviamo più con spirito di abnegazione i nostri doveri e compiti etici missionari verso la società alla quale apparteniamo. Non rispondiamo a una ‘chiamata’, un ispirato afflato, non ci siamo dati un mandato artistico e sociale dedicandolo alla diffusione di alti e nobili ideali, risvegliando le coscienze, non sappiamo più neanche cosa sia l’esecuzione di esercizi spirituali. C’è perfino ancora chi, mummificatosi in cerca di scritture e in mancanza d’altro, si nasconde dietro a repertori e a testi letterari. Abbiamo indirizzato il teatro a fini egotistici, atteggiandoci intellettualisticamente, mossi da compiaciute esaltazioni dell’io, riducendo la pratica artistica a un lavoro impiegatizio, alla ricerca di sovvenzioni, paghe sindacali, giornate lavorative, contributi previdenziali, numero di repliche e di laboratori. Ma il fine non è quello di fare spettacoli, non si pratica il teatro per il teatro. È un mezzo, è un veicolo come dice Brook, è un atto di conoscenza, necessario per elevare l’umanità, certo, ma a partire da noi stessi. Il teatro è tutt’altro che finzione, è una speciale missione segreta verso la verità, e non verso la vanità, e chi lo pratica ha un mandato da darsi e da assolvere per avvicinarsi alla profonda verità della vita, alle grandi e ineffabili domande che scaturiscono da essa, quelle che si pongono tutti, domande ontologiche in merito a cosa sia la vita stessa, quale ne sia lo scopo, il senso, il significato o la sua mancanza di significato, tutte domande che concernono l’essere e il non essere. Appunto, ci risiamo.
Roberto Ruggieri.
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