RIMANE QUESTO IL PROBLEMA
Siamo andati planando a terra,
anche se di consueto tendiamo a non farlo, costretti dalle ultime tragiche
vicende. Ciò che abbiamo in sintesi espresso in forma monologata nei nostri tre
precedenti interventi è la realtà non esaltante, ancor più in tempi di
pandemia, lo stato delle cose così com’è percepito da addetti ai lavori ignorati
dallo Stato centrale e che stanno ai margini del salotto mondano del teatro che
conta, quello paludato, adeguatamente sussidiato da enti pubblici e da privati,
al quale viene puntualmente garantita in varie forme e modi un’esaustiva
visibilità. Ma, visto e considerato che quando siamo presi in considerazione,
ciò avviene soltanto per essere tartassati in tempi ordinari da fiscalismi
eccessivi e per essere vessati, come sta attualmente avvenendo in un periodo
straordinario, da insani provvedimenti sospensivi, non sarà preferibile, c’è da
chiedersi legittimamente, rendersi ancor più invisibili tornando a volare più
in alto possibile?
E poi, visto e considerato che la cultura dominante confonde l’opulenza della scena col valore di un teatro, non sarà forse un sollievo essere invisibili?
Consigli (non richiesti) su come essere, per non essere visibili
Si può naturalmente esaminare il
teatro - ma questo è vero non solo per quest’arte - secondo molteplici
angolazioni e punti di vista più o meno legittimi. Tra le tante possibilità a
disposizione, poniamo il caso di tracciare una vera linea di demarcazione tra
il teatro dell’apparenza e quello dell’essere, tra il teatro ‘ricco’ e quello
‘povero’, tra ‘figurare di essere’ ed ‘essere’. Per esempio, durante il primo lockdown generalizzato il C.U.T. di
Perugia è stato tra coloro che hanno deciso di ‘essere’: in questo caso, di
essere assenti, di non apparire, diversamente da coloro i quali altrettanto
legittimamente hanno fatto di tutto per apparire, a qualsiasi costo, anche in
modo virtuale, togliendo al teatro la sua viva specificità, pur di non perdere la
propria particulare visibilità. Il
vantaggio di essere invisibili, è quello di non aver nulla da perdere nel
rimanere tali.
Essere vuol dire avere il
privilegio di soffermare lo sguardo all’interno; apparire significa dirigerlo
prevalentemente all’esterno, dando più rilievo all’esteriorità. Spesso e
volentieri essere vuol dire povertà, essenzialità, riduzionismo estetico e
culturale, minimalismo: negli anni Sessanta del secolo scorso Grotowski e
Flaszen lo hanno teorizzato stupefacendo il mondo intero. Come ha fatto anche
Brook dagli anni Settanta in poi con risultati altrettanto sorprendenti. Apparire
è sinonimo di altisonante opulenza, di magnificente ricchezza (scenografica,
illuminotecnica, costumistica, impiantistica, ecc.) e può dare risultati altrettanto
interessanti. Tra i massimi esponenti del teatro ricco non possiamo non
ricordare Ronconi, che ha rivoltato i teatri in tutti i modi possibili e
immaginabili collocando, tra le tante soluzioni innovative, oltre mezzo secolo
fa, gli spettatori sui palchi e gli attori in platea, di cui gran parlare si fa
anche oggi, anacronisticamente, a distanza di decenni.
“Molti preferiscono l’apparire all’essere, e così fanno torto alla
giustizia (Dike)”, scriveva Eschilo 2.500 anni fa (Agamennone, 788-89).
Cosa desideriamo essere? Non è
facile rispondere a questa domanda se si è muniti di certezze: non tutti sanno
cosa desiderano essere nei loro sogni. L’interesse verso il mondo interiore va
sempre più scemando. È necessario, soprattutto per chi si occupa d’arte, saper
rispondere a questa domanda, per non vivere, insoddisfatti, di lamenti,
frustrazioni, inappagamenti. Per il compiaciuto attore medio (e per il banale
regista medio) il teatro non è altro che sé stessi. I sogni, i desideri
espressi dal nostro mondo interiore, per non essere svalutati da immagini ed
esagerate ambizioni esterne, prodotte da esigenze commerciali dettate dalla
volontà di apparire, dalla rincorsa al successo e all’affermazione dell’ego, dovrebbero
rispecchiare le vere autonome esigenze della propria psiche non condizionata,
rimanendo il più possibile a contatto con l’interiorità.
Per fare questo si deve essere
convinti di non essere noi (essere o non essere?) a comporre la nostra vita, ma
che è essa stessa a narrare noi entelechialmente, a renderci compiuti,
realizzando in sé il suo fine, senza interventi esterni, realizzando quelle che
sono le sue possibilità, dando così forma alla nostra esistenza.
Prima di agitarci al di fuori,
sarebbe bene che ognuno rispondesse alla suddetta domanda: cosa desideriamo
essere? Non c’è sindacato al mondo che possa rappresentare noi stessi. Mi
sembra un po’ squallido, mi si consenta dirlo, delegare ad altri il compito di
rappresentarci. Chi può mai rappresentarci, se non noi stessi?
Ricorrendo al concetto
dell’entelechia, non vogliamo con ciò negare l’intervento della volontà, il
libero arbitrio, ma è buon senso non forzare la situazione per appagare sogni
altrui, appresi dall’esterno, lasciati penetrare in noi allo scopo di
uniformarci piattamente agli stereotipi culturali e sociali altrui, tanto per
apparire. Siamo agiti non coscientemente, lo dice anche la scienza oramai in
modo corale.
Lasciamo i trucchi del mestiere al
replicante mestierante, convinto com’è che il teatro sia sé stesso, indaffarato
a plagiare sé stesso, le ricette sceniche appariscenti ai registi privi di
originalità esperti a ‘mettere in scena’ i repertori. Fate vedere che la vera
ricchezza è nella povertà, che non significa immiserimento. Senza perdere
tensione verso l’assoluto, che è ciò che conta veramente, integrando energie
psichiche e fisiche. Va mantenuta la rotta della via negativa, la sola che può condurre a una vera trasgressione in
un rapporto comunitario, diretto e palpabile, tra l’attore e lo spettatore.
L’esplorazione delle possibilità estreme non richiede altra ricchezza che
quella interiore che ognuno di noi potenzialmente possiede. Il teatro come atto
di conoscenza spirituale, nient’altro che questo.
E che ognuno segua il suo
cammino. Buon viaggio!
Amen.
Roberto Ruggieri.
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